Un tesoretto prima trovato e poi perduto

di

Francesco Totrtorici Cremona

 

Non sia sgradito ai lettori che io narri una scoperta da me fatta per un puro accidente.
Volgono circa quattordici anni, che, una mattina, tornando da un mio poderetto, dove mi toccò di pernottare a causa di un temporale, nella contrada Pietra dell’Uomo e, precisamente, lungo la via che porta nella proprietà di Culmone e Barrile, ove esiste una superficie di quasi due ettari di terreno piena di reperti antichi, mi accorsi che la furia dell’acqua aveva causato una frana nel ciglione a lato del sentiero da me percorso, mettendo allo scoperto una lastra di pietra arenaria, della lunghezza di circa un metro e altrettanta larga. Per semplice curiosità, mi venne in animo di sollevarla, ciò che feci con poca fatica, stante l’umidita del terreno. Ebbene, sotto di quella, trovai un vaso capovolto di cui compariva soltanto il fondo, giacché il resto era sprofondato nel terreno. Servendomi di un coltello, lo scansai da tutti i lati dalla terra che lo copriva e tentai sollevarlo, ma, nonostante la precauzione usata, il vaso, di rozzissima creta nera, della grandezza e forma di una catinella, andò in frantumi. Però degli oggetti attrassero la mia attenzione: erano due pietre lucentissime non trasparenti che mi sembrarono cristallo, posato sopra un mucchio di polvere finissima, con frammenti di ossa. Una di color nero, della lunghezza di 4 centimetri o quasi, con tre di larghezza, l’altra di color turchino, un centimetro più lunga, e larga quasi quanto la prima. Entrambe fortissime e di finissima tempera, un po’ grosse nel centro, quasi un centimetro, e fini all’estremità.
Frugai in mezzo alla polvere… e non c’era altro che due sottili pietre focaie, a forma di lama di coltello addentellate.
Mi balenò l’idea che fossero pietre di valore e le serbai in tasca.
Per quasi due anni le tenni nel cassetto, finché un giorno, passando un antiquario da me conosciuto, certo don Salvatore Auteri, da Grammichele, me ne richiese una per farla vedere, e, nel caso che fosse stata qualche pietra di valore, mi avrebbe avvisato. Don Salvatore non mi scrisse più.
L’altra, cioè quella turchina, la consegnai ad un orefice del mio paese, per farla osservare a Palermo mi disse, ma… la smarrì! Come si vede fui malamente servito.
Mi rimaneva a diradare il mistero, sul significato di quelle pietre terse, che ancora si affacciano alla mente, come se fosse stato ieri, poste sulla terra sottile, con particelle di ossa: mistero che mi fu svelato, due anni fece ora, e precisamente nell’aprile del 1923, dal prof. Ettore Gabrici, direttore del museo nazionale di Palermo, al quale raccontai quanto sopra. Egli mostrò interesse alla mia narrazione, dicendomi che la mia scoperta aveva un valore archeologico importante, per la rarità del caso. In quel posto c’era un morto fulminato. L’epoca si perde nella notte dei secoli. La pietra turchina era consacrata a Giove Tonante, quella nera a Plutone. Le pietre focaie erano le provocatrici della scintilla; la polvere fina con i frammenti d’ossa era la cenere del morto, ammesso che in quell’epoca si bruciavano i cadaveri.
La spiegazione soddisfacentissima, mi fece apprezzare l’erudizione del competente e dotto archeologo Cav. Gabrici e nello stesso tempo provai un senso di rimpianto per le pietre perdute, che per me rappresentavano il valore reale… di cui avevo tanto bisogno (giacché la pietra turchina era un turchese come seppi in seguito) e che mi venne meno per la fiducia accordata al mio prossimo.