“La minuta della zita” di Carmelo Orofino

Nel lontano 2004 fu stampato dalla tipografia Di Prima di Pietraperzia un libretto dal titolo “L’amore nell’età del pane”. L’opuscolo raccoglieva i risultati di una ricerca etno-antropologica sulle tradizioni popolari  inerenti la nascita e il matrimonio nella cultura contadina. Si trattava di una progetto scolastico voluto dal Liceo “Falcone” di Barrafranca e  affidato alle cure di chi scrive questa nota e a quelle della professoressa Giuseppa Milazzo, docente di filosofia e scienze della formazione. Nel corso della ricerca preliminare alla stesura, la professoressa Milazzo riuscì a reperire copia di un prezioso manoscritto del 1851, riportante un contratto matrimoniale e alcune “minute”. Per i pochi che non sapessero, la “minuta” era la stesura su carta di un accordo preliminare sui beni dotali  che i genitori intendevano trasferire agli “ziti”. La lettura di una di queste “minute” del piò essere davvero illuminante per capire il diverso valore simbolico e pratico   che i beni materiali avevano nella cultura del tempo rispetto alla nostra. Alcuni beni che oggi sembrano di poco conto allora erano essenziali e preziosi. Nella “minuta della zita” del 1810, riportata nel testo, si legge che la futura sposa potrà disporre di:
“ un paro di piomazzi del letto pieni di linazza, quattro pari di calzetti bianchi, quattro muccaturi: dui di tela fina guarnuti e dui di tela di lenza. Quattro “faudali”  e naturalmente di una “cascia grande per la robba” e “uno telaro fornito” e infine di un “un paio di circelli d’oro”.

Il futuro sposo potrà contare su:
“un paro di trispidi di legno di letto grande, con sei tavoli, quattro seggie di giummarra e due cirioni, due tomoli di  formento per due mesi di mancia” e prevedibilmente sui “ firramenti”, cioè: “zappa, zappuni, zappulla, fauci, fauciglione e tradenta”, oltre che su un  “cofone” e sugli “zimilli (bisacce)” e – muoia l’avarizia!- poteva contare persino “un piede di majale quando si scanna.”

Si potrà obiettare che la minuta si riferisce a una coppia contadina e che tale povertà di mezzi riguardi solo uno strato sociale, ma non è così. Dal  contratto notarile del 1851 tra una nobildonna e un “mastro” benestante si capisce che alcuni beni d’uso quotidiano erano così importanti da essere trasferiti – riciclandoli – da una generazione all’altra. Nel contratto notarile si legge che don Vincenzo Falzone dota la figlia Sebastiana di due “ matarazzi pieni di crine usati”, una “cottonata usata” e “una mailla usata”: e così pure di una padella usata e di un calderone di rame, anche se il padre della sposa può permettersi di offrire al futuro genero “onze sei di denaro” per comprare “legname nuovo” e persino “una posata – dicesi una – d’argento usata”.

Tutto è cambiato. Grazie alla prima e alla seconda rivoluzione industriale che hanno permesso la produzione seriale dei beni, oggi nessuno oserebbe dotare la figlia di una sola posata, sia pure d’argento; e gli sposi per fortuna scelgono da soli in una lista nozze il necessario  e soprattutto il superfluo per la loro incipiente vita coniugale.

Carmelo Orofino